Virus a Milano
Se oggi la pandemia di Covid-19 ha sconvolto la nostra vita e ci sembra di vivere in qualcosa di irreale, fino al secolo scorso lo scoppio di un’epidemia non era un evento inaspettato. Con la differenza che oggi abbiamo più conoscenze in ambito medico-scientifico per capirne le cause e correre ai ripari, nel passato invece non si capiva cos’era, da dove veniva e quando tutto sarebbe finito. L’unica certezza era che il contagio portava quasi sempre alla morte. La città di Milano ed i suoi territori, fin dall’antichità crocevia di popoli e collegamento tra la penisola italiana ed il nord Europa, dovettero subire parecchie volte la diffusione di terribili malattie, ma quella che nel passato era temuta da tutti si chiamava morte nera, ovvero la peste bubbonica.
La più famosa fu quella che raggiunse l’apice nel 1630, riducendo la popolazione cittadina da 250.000 abitanti circa a soli 64.000 nel giro di un paio d’anni. Dato che l’epidemia non faceva differenza tra le sue vittime, morì non solo la gente comune ma anche importanti personalità, tra cui i più importanti artisti lombardi operanti a Milano, definiti “pestanti” proprio perché morirono di questo male, lasciando un vuoto nella tradizione artistica locale che venne colmato parecchi anni più tardi: senza più maestri si dovette ricorrere ad artisti forestieri. Grazie ad Alessandro Manzoni possiamo però ancora oggi conoscere nei dettagli ciò che avvenne: negli ultimi capitoli del suo capolavoro, I Promessi Sposi, tramite le vicende dei suoi protagonisti è descritta la paura, lo smarrimento, l’ingiustizia, la disperazione ed infine la speranza.
Lo scrittore fece una precisa ricostruzione storica dei luoghi della Milano seicentesca, alcuni dei quali, o meglio ciò che ne resta, si possono vedere ancora ai giorni nostri, anche se nascosti. Chi viene a Milano per lo shopping avrà di sicuro sentito nominare Corso Buenos Aires, la via di negozi più lunga della città. Scendendo dalla metropolitana alla fermata di Porta Venezia, proprio all’inizio del corso se si ha la fortuna di trovare il portone aperto, entrando a palazzo Luraschi, si scopre il cortile interno decorato con i busti in terracotta dei personaggi dei Promessi Sposi. Sì, perché proprio da lì iniziava il più grande lazzaretto milanese, quello di Porta Orientale. Si trattava di un’enorme costruzione in mattoni, disegnata dall’architetto della corte sforzesca Lazzaro Palazzi nel 1488: un grande recinto quadrangolare (370x378 mt di lato, 140.000 mq), con all’interno un porticato che affacciava su un vasto spiazzo; vi erano 288 camere: 280 camere erano destinate agli infermi e le altre 8 ai servizi. Era circondato da un profondo fossato e si poteva accedere solo da due ingressi, uno per i vivi e l’altro per i morti. Le guardie sorvegliavano che nessuno tentasse la fuga, perché nel lazzaretto venivano rinchiusi non solo coloro che presentavano i sintomi della malattia, ma anche i loro famigliari, che magari erano sani ma che quella detenzione esponeva ad un rischio quasi certo. Foppone. Questo è il termine milanese per indicare una fossa comune, e quello del lazzaretto, detto di San Gregorio per la chiesa che sorgeva vicino, era sicuramente il più grande della città. Il lazzaretto fu costruito appositamente fuori dalla cinta muraria, in una zona non lontana dalla città dove soffiava l’aria più pura proveniente dalla Brianza e quindi dalle Alpi.
L’unica certezza che avevano era che si diffondeva via aerea, da qui la scelta di quel luogo. Quando finalmente a fine Ottocento due scienziati, lo svizzero Alexandre Yersin ed il giapponese Shibasaburo Kitasato isolarono il bacillo della peste, che dai topi di fogna attraverso le pulci passava all’uomo e di conseguenza fu trovato il rimedio, il Lazzaretto perse la sua funzione primaria. Fu trasformato in magazzino, rimessa, stalla, le camere divennero poveri alloggi per operai e ceti meno abbienti.
Con l’Unità d’Italia e l’espansione edilizia, un’area così vasta fece gola agli imprenditori edili che ottennero il permesso dal comune di demolirlo, lasciando però un solo moncone a ricordo della triste funzione del luogo. Ciò che resta del lazzaretto è visibile in una strada perpendicolare a corso, via San Gregorio, mentre non lontano è rimasta completamente integra la chiesetta di San Carlo al Lazzaretto.
Fu proprio l’arcivescovo e poi santo di Milano, Carlo Borromeo, a far trasformare l’altare che si trovava al centro del grande spiazzo del lazzaretto in chiesa, a pianta ottagonale ma aperta su tutti i lati in modo che i malati, distesi sui loro giacigli, impossibilitati a muoversi, dalla porta della stanza potevano assistere alla celebrazione della messa.
Nel 1576 Milano era già stata colpita da un'altra epidemia di peste, ma Carlo Borromeo si prodigò nella cura degli appestati facendo osservare norme igieniche all’avanguardia che contennero la diffusione del morbo e dando conforto spirituale ai cittadini. Per questo motivo alla cessazione della peste nel 1577 i cittadini fecero erigere il tempio civico di San Sebastiano in via Torino, dove ogni anno il 20 gennaio, il giorno dopo la festa del santo martire protettore contro la peste, le autorità civili e religiose vi si recano in processione.
Anche il 14 settembre in Duomo si svolge una cerimonia solenne e molto suggestiva legata alla peste di San Carlo: il 6 ottobre 1576 l’arcivescovo aveva fatto calare dall’abside del Duomo la reliquia del Sacro Chiodo della croce di Cristo, inserendola in un crocifisso alto più di due metri da portare in processione. Da allora ogni secondo fine settimana di settembre la reliquia è esposta sull’altare.
Ritornando all’epidemia del 1630 restano ancora due luoghi ad essa collegati: dove sorgeva la casa di Gian Giacomo Mora in corso di Porta Ticinese e la lapide marmorea esposta al Castello Sforzesco che testimonia ciò che gli successe. E’ sempre Alessandro Manzoni ad averci lasciato la storia del processo e della terribile esecuzione di due malcapitati, accusati di diffondere il morbo, ovvero di essere degli “untori”.
Nella Storia della Colonna Infame, lo scrittore descrive l’arresto del barbiere Gian Giacomo Mora e del medico Guglielmo Piazza, che dopo un mese di torture confessarono un crimine inesistente e vennero condannati ad una crudelissima esecuzione capitale pubblica il 1° agosto 1630. E per chi volesse anche vedere dove queste due opere letterarie furono create, non può perdere la visita alla casa di Alessandro Manzoni, nella piccola e nascosta piazza Belgioioso, uno dei tanti posti che Milano, città moderna da sempre proiettata verso il futuro, nasconde e rivela solo ai più curiosi appassionati.
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Scritto daLara Ioan